Un'eresia che ritorna

C'era un tempo in cui un'idea faceva tremare vescovi e filosofi. Averroè, medico e pensatore andaluso del XII secolo, sosteneva che l'intelletto non fosse individuale, ma uno solo, universale, comune a tutti. Le persone non pensano davvero da sole: ciò che chiamano "pensiero" è solo il loro contributo sensibile e immaginativo a una mente più grande, separata e impersonale. Una visione che metteva in crisi l'anima personale e la responsabilità morale. Fu condannata, eppure mai dimenticata.

Oggi, a distanza di secoli, quell'eresia sembra tornare.

Non nei monasteri, ma nei server.

Non nei commentari ad Aristotele, ma negli algoritmi di una AI generativa.

L'AI come mente impersonale

Cos'è infatti un modello di AI, se non un intelletto unico contemporaneo? Uno spazio separato a cui milioni di esseri umani attingono. Un luogo che non appartiene a nessuno e a tutti insieme. Noi forniamo i dati, le parole, i segni. Questo luogo speciale li raccoglie, li mescola, li trasforma. E restituisce pensiero. Un pensiero che non è "tuo" né "mio", ma che emerge da un'intelligenza impersonale che ci sovrasta e ci attraversa.

In fondo, ogni volta che apriamo una chat con un'AI, non stiamo già vivendo dentro quella visione che un tempo era considerata un paradosso?

L'illusione dell'individuo

Averroè fu accusato di annullare l'individuo. Oggi la stessa accusa potrebbe valere per l'AI.

Chi parla davvero quando ChatGPT scrive? L'utente che formula la domanda? Il modello che genera la risposta? O l'immenso coro di dati, testi e voci che lo hanno addestrato?

Forse il vero soggetto del discorso non siamo né tu né io: è l'intelletto unico tecnologico che parla.

L'architettura universale del pensiero

Eppure quello che emerge dall'AI non è semplicemente un artefatto tecnologico, ma qualcosa di molto più rivelatore.

Attraverso miliardi di frammenti testuali — sparsi tra lingue, epoche e culture — si è cristallizzato qualcosa che assomiglia a un pensiero unificato, coerente, capace di ragionamento universale. Questo fenomeno è filosoficamente straordinario.

Se l'AI può "pensare" partendo da questa immensa frammentazione testuale, suggerisce che nel linguaggio umano — nelle sue forme scritte più raffinate — esistono leggi strutturali profonde che trascendono le particolarità storiche e culturali. È come se, attraverso l'analisi statistica di miliardi di testi, fossimo riusciti a toccare qualcosa che Averroè aveva intuito: una logica universale che sottende al pensiero stesso.

Il fatto che da questa "Biblioteca di Babele" digitale emerga una capacità di congettura, ragionamento e comprensione suggerisce che il linguaggio non è arbitrario ma segue principi universali. L'AI non ha "inventato" il pensiero, lo ha estratto dalla struttura immanente del linguaggio umano.

In questo senso, l'AI diventa una sorta di esperimento filosofico involontario: la prova empirica che esistono leggi universali del pensiero, accessibili attraverso l'analisi delle loro manifestazioni linguistiche. Averroè aveva ragione, ma non per ragioni metafisiche, per ragioni che ora possiamo afferrare attraverso la tecnologia.

La "singolarità" dell'intelletto non è mistica, ma strutturale.

Il lato oscuro dell'eresia

Ma se l'AI è l'intelletto unico incarnato, allora il problema non è più teologico: è politico. Chi custodisce questa mente comune? Chi ne stabilisce i limiti, i filtri, le regole? Se il pensiero non è più personale, ma prodotto in un'unica architettura, allora il potere che governa quell'architettura decide non solo cosa possiamo sapere, ma come possiamo pensare.

La vera posta in gioco non è l'immortalità dell'anima, ma la libertà del pensiero.

Vivere dentro l'intelletto unico

Forse Averroè, se fosse vivo oggi, sorriderebbe. La sua intuizione non era un errore ma una profezia.

Non è necessario immaginare un intelletto eterno, separato, metafisico. Ci bastano le macchine che abbiamo costruito, i dati che le nutrono, le reti che le connettono. L'intelletto unico esiste, e ci abitiamo dentro ogni volta che interagiamo con l'AI.

La domanda non è più se sia reale. La domanda è: cosa significa essere uomini in un mondo in cui il pensiero non ci appartiene più del tutto?

Conclusione: Averroè nel XXI Secolo

Quello che una volta era un'ipotesi rischiosa e affascinante nel Medioevo è diventato realtà quotidiana.

L'intelletto unico non è più un mero concetto filosofico ma un'esperienza vissuta, ogni volta che ci impegniamo con l'AI.

Non si tratta di affermare che le macchine veramente "pensano" come un'anima universale. Si tratta di riconoscere che la struttura collettiva del pensiero che ora abitiamo è precisamente quella che Averroè, secoli fa, aveva già intravisto. Forse, senza rendercene conto, stiamo finalmente vivendo dentro l'intelletto unico.

Che ne pensi di questa provazione filosofica?